Capitolo 18

LA SANTITÀ DELLO SPIRITO E LE GLORIE CHE SEGUIRANNO

Romani 8:12

Ora l'Apostolo sviluppa queste nobili premesse in conclusioni. Quanto è fedele a se stesso e alla sua Ispiratrice la linea che segue! Prima viene il più pratico possibile dei richiami al dovere; poi, e in connessione profonda, le più intime esperienze dell'anima rigenerata sia nella sua gioia che nel suo dolore, e le più radiose e vaste prospettive di gloria a venire. Ascoltiamo ancora, ricordando sempre che questa lettera da Corinto a Roma deve arrivare anche a noi, attraverso la Città. Colui che ha spinto il suo servo a mandarlo ad Aquila ed Erodione aveva in mente anche noi, e ora ha realizzato il suo proposito. È aperto nelle nostre mani per la nostra fede, amore, speranza, vita oggi.

San Paolo inizia con la santità vista come dovere, come debito. Ci ha guidati attraverso il nostro vasto tesoro di privilegi e possedimenti. Cosa dobbiamo fare con esso? Lo tratteremo come un museo, in cui possiamo occasionalmente osservare i misteri della Nuova Natura, e con un discorso più o meno istruttivo su di essi? Dovremo trattarlo come il disattento re dell'antichità trattava le sue splendide scorte, facendone il suo vanto personale, e così tradindole con lo stesso potere che un giorno avrebbe fatto loro tutto il suo bottino? No, dobbiamo vivere della magnifica munificenza di nostro Signore, alla Sua gloria e nella Sua volontà.

Noi siamo ricchi; ma è per Lui. Abbiamo i Suoi talenti; e quei talenti, rispetto alla Sua grazia, in quanto distinti dai Suoi "doni", non sono uno, né cinque, né dieci, ma diecimila, poiché sono Gesù Cristo. Ma li abbiamo tutti "per Lui". Siamo liberi dalla legge del peccato e della morte; ma siamo in perpetuo e delizioso debito verso Colui che ci ha liberati. E il nostro debito è camminare con Lui.

"Allora, fratelli, siamo debitori." Inizia così il nostro nuovo paragrafo. Per un momento si volta per dire a cosa non abbiamo alcun debito; anche "la carne", la vita personale. Ma è chiaro che il suo scopo principale è positivo, non negativo. Implica in tutto il ricco contesto che siamo debitori allo Spirito, al Signore, "camminare secondo lo Spirito".

Che pensiero salutare! Troppo spesso nella Chiesa cristiana la grande parola Santità è stata praticamente relegata su un presunto sfondo quasi inaccessibile, sui pendii di un'ambizione spirituale, in una regione dove pochi potrebbero a fatica arrampicarsi nella ricerca, uomini e donne che avevano essere buono", o che forse aveva un eccezionale istinto di pietà. Sia ringraziato Dio, ha sempre tenuto molte coscienze vive all'illusione di una tale nozione; e ai nostri giorni, sempre di più, la Sua misericordia fa capire ai Suoi figli che "questa è la Sua volontà, anche la santificazione" - non di alcuni di loro, ma di tutti.

In lungo e in largo stiamo rinascendo per vedere, come i padri della nostra fede hanno visto prima di noi, che qualunque altra cosa sia la santità, è un "debito" sacro e vincolante. Non è un'ambizione; è un dovere. Siamo tenuti, ognuno di noi che nomina il nome di Cristo, ad essere santo, ad essere separato dal male, a camminare secondo lo Spirito.

Guai alla miseria dell'indebitamento; quando i fondi mancano! Sia che l'infelice debitore esamini i suoi affari, sia che ignori colpevolmente la loro condizione, è - se la sua coscienza non è morta - un uomo infestato. Ma quando un debito onorevole concorre con mezzi ampi, allora uno dei piaceri morali della vita è l'esame puntuale e lo scarico. "L'ha da lui"; ed è sua felicità, come è sicuramente suo dovere, non "dire al prossimo: Va' e torna, e domani io darò". Proverbi 3:28

Fratello cristiano, partecipe di Cristo e dello Spirito, anche noi dobbiamo a Colui che possiede. Ma è un indebitamento del tipo felice. Una volta dovevamo, e nella borsa c'era peggio di niente. Ora dobbiamo, e abbiamo Cristo in noi, mediante lo Spirito Santo, quanto pagare. L'eterno Prossimo viene a noi, senza sguardo accigliato, e ci mostra la sua santa richiesta; vivere oggi una vita di verità, di purezza, di confessione del suo Nome, di servizio disinteressato, di perdono lieto, di pazienza ininterrotta, di simpatia pratica, di amore che non cerca il suo.

Cosa diremo? Che è un bell'ideale, che vorremmo realizzare, e che potremmo ancora tentare seriamente un giorno? Che è ammirevole, ma impossibile? Anzi; "siamo debitori". E Colui che rivendica per primo ha dato incommensurabilmente. Abbiamo Suo Figlio per la nostra accettazione e la nostra vita. Il suo stesso Spirito è in noi. Non sono queste buone risorse per una vera solvibilità? "Non dire, vai e torna; ti pagherò domani. Ce l'hai con te!"

La santità è bellezza. Ma è il primo dovere, pratico e presente, in Gesù Cristo nostro Signore.

Dunque, fratelli, noi siamo debitori alla carne, in vista di vivere secondo la carne; ma allo Spirito, che ora è la nostra legge e la nostra potenza, per vivere secondo lo Spirito. Perché se vivi secondo la carne, stai per morire. Ma se per lo Spirito farai alla morte le pratiche, gli stratagemmi, le macchinazioni, del corpo, vivrai. Ah, il corpo è ancora lì, ed è ancora un sedile e un veicolo di tentazione.

"È per il Signore, e il Signore è per questo". 1 Corinzi 6:13 È il tempio dello Spirito. La nostra chiamata è 1 Corinzi 6:20 per glorificare Dio in essa. Ma tutto questo, dal nostro punto di vista, passa dalla realizzazione alla mera teoria, tristemente smentita dall'esperienza, quando lasciamo che la nostra accettazione in Cristo, e il nostro possesso in Lui dello Spirito Onnipotente, diventino una semplice frase.

Dite quello che alcuni uomini vogliono, non siamo mai per un'ora quaggiù esenti da elementi e condizioni di male che risiedono non solo intorno a noi, ma dentro di noi. Non esiste una fase della vita in cui possiamo fare a meno del potere dello Spirito Santo come nostra vittoria e liberazione dalle "macchine del corpo". E il corpo non è separato e per così dire personalità minore. Se il corpo dell'uomo "macchina", è l'uomo che è il peccatore.

Ma poi, grazie a Dio, questo fatto non è il vero peso delle parole qui. Ciò che San Paolo ha da dire è che l'uomo che ha lo Spirito interiore ha con sé, in sé, un divino e onnipotente Agente di contrasto al più sottile dei suoi nemici. Lascia che faccia ciò che lo abbiamo visto sopra Romani 7:7 trascurando di fare. Lascia che con uno scopo cosciente e un fermo ricordo della sua meravigliosa posizione e del suo possesso (così facilmente dimenticato!) evochi l'eterno Potere che non è se stesso, sebbene in se stesso.

Lo faccia con il ricordo e la semplicità "abituali". E sarà "più che vincitore" dove è stato così miseramente sconfitto. Il suo cammino sarà come di chi cammina sopra i nemici che minacciano, ma che sono caduti e che muoiono ai suoi piedi. Sarà meno una lotta che una marcia, anzi su un campo di battaglia, ma un campo di vittoria così continuo che sarà come la pace.

"Se per lo Spirito le fai a morte". Segna bene le parole. Qui non dice nulla di cose spesso ritenute essenziali per i rimedi spirituali; niente di "volontà-adorazione, umiltà e trattamento spietato del corpo"; Colossesi 2:23 niente nemmeno di digiuno e preghiera. Sacra e preziosa è l'autodisciplina, la vigile cura che l'atto e l'abito siano fedeli a quella “temperanza” che è ingrediente vitale del “frutto” dello Spirito.

" Galati 5:22, Matteo 26:41 È la stessa voce del Signore Matteo 26:41 che ci Matteo 26:41 sempre di "vegliare e pregare"; "pregare nello Spirito Santo". Giuda 1:20 Sì, ma questi veri esercizi dell'anima credente sono dopotutto solo come recinzione di copertura attorno a quel segreto centrale: il nostro uso per fede della presenza e del potere dello "Spirito Santo datoci.

"Il cristiano che trascura di vegliare e pregare troverà sicuramente che non sa come usare questa sua grande forza, perché perderà la realizzazione della sua unità con il suo Signore. Ma poi l'uomo che in realtà, e nel profondo della il suo essere, è "fare alla morte le pratiche del corpo", è farlo, "immediatamente", non mediante disciplina, né mediante sforzo diretto, ma mediante l'uso credente dello "Spirito". il potere del nemico e quella pienezza è secondo la fede che si arrende.

Poiché quanti sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio; poiché non hai ricevuto uno spirito di schiavitù, per riportarti di nuovo alla paura; no, hai ricevuto uno Spirito di adozione alla filiazione, in cui Spirito, arreso alla Sua santa potenza, gridiamo, senza tregua, esitando: "Abbà, nostro Padre". La sua argomentazione funziona così; «Se volete davvero vivere, dovete commettere peccato fino alla morte per opera dello Spirito. E questo significa, sotto un altro aspetto, che dovete lasciarvi condurre dallo Spirito, con quella guida che sicuramente vi condurrà sempre lontano da sé e nella volontà di Dio.

Devi accogliere l'Abitante per avere la Sua via santa con le tue sorgenti di pensiero e volontà. Così, e solo così, risponderete veramente all'idea, alla descrizione, "figli di Dio" - quel termine glorioso, che non deve mai essere "soddisfatto" dal rapporto di mera creaturalità, o da quello di mera santificazione esteriore, mera appartenenza a una comunità di uomini, benché sia ​​la stessa Chiesa visibile. Ma se incontrate così il peccato mediante lo Spirito, se siete così guidati dallo Spirito, non vi mostrate niente di meno che i figli di Dio.

Non ti ha chiamato a niente di inferiore alla filiazione; alla connessione vitale con la vita di un Padre divino e agli abbracci eterni del suo amore. Infatti, quando Egli ha dato e voi avete ricevuto lo Spirito, lo Spirito Santo della promessa, che rivela Cristo e vi unisce a Lui, cosa ha fatto quello Spirito, nella sua operazione celeste? Ti ha ricondotto alla vecchia posizione, in cui ti sei allontanato da Dio, come da un Maestro che ti ha legato contro la tua volontà? No, vi ha mostrato che nel Figlio Unigenito non siete altro che figli, accolti nell'intima dimora della vita e dell'amore eterni.

Vi siete trovati indescrivibilmente vicini al cuore del Padre, perché accolti, e ri-creati, nel Suo stesso Amato. E così hai appreso la chiamata felice e fiduciosa del bambino: 'Padre, o Padre; Padre nostro, Abba."

Così è stato, e così è. Il membro vivo di Cristo non è altro che il caro figlio di Dio. Egli è altre cose oltre; è discepolo, seguace, servo. Non smette mai di essere schiavo, sebbene qui gli venga espressamente detto che non ha ricevuto "spirito di schiavitù". Per quanto "schiavitù" significhi servizio forzato contro la volontà, ha fatto con questo, in Cristo. Ma in quanto significa servizio reso da colui che è proprietà assoluta del suo padrone, è entrato nelle sue profondità, per sempre.

Eppure tutto ciò è esterno, come se fosse intimo, a quel fatto più intimo, che egli è, in un certo senso ultimo, e che solo realizza realmente la parola, il bambino, il figlio di Dio. È più caro di quanto possa sapere a suo Padre. È più benvenuto di quanto possa mai realizzare di prendere suo Padre in parola, appoggiarsi al suo cuore e raccontargli tutto.

Lo Spirito stesso testimonia con il nostro spirito, che siamo figli di Dio, figli nati. Il Santo, da parte Sua, fa sì che il cuore un tempo freddo, riluttante e preoccupato "conosca e creda all'amore di Dio". Egli "diffonde in essa l'amore di Dio". Porta alla coscienza e all'intuizione la "sobria certezza" delle promesse della Parola; quella Parola attraverso la quale, al di sopra di ogni altro mezzo, Egli parla. Mostra all'uomo «le cose di Cristo», l'Amato, in cui ha l'adozione e la rigenerazione; facendogli vedere, come vedono le anime, quale accoglienza paterna "deve" essere per coloro che sono "in Lui".

E poi, dall'altra parte, il credente incontra lo Spirito con lo spirito. Risponde al sorriso paterno rivelato non solo con la lealtà di un suddito, ma con l'amore profondo di un figlio; amore profondo, riverente, tenero, genuino. proprio figlio", dice lo Spirito. "Senza dubbio Egli è mio Padre", dice il nostro stupore, credere, vedere lo spirito in risposta.

Ma se figli, allora anche eredi; Eredi di Dio, coeredi di Cristo, possessori in vista del cielo di nostro Padre (verso il quale ora tutto il discorso gravita), in unione di interessi e di vita con il nostro Fratello Primogenito, nel quale risiede il nostro diritto. Da una parte un dono, infinitamente misericordioso e sorprendente, quella beatitudine invisibile, dall'altra la parte legittima del figlio legittimo, uno con l'Amato del Padre.

Tali eredi siamo, se davvero condividiamo le Sue sofferenze, quei dolori profondi ma santi che sicuramente ci arriveranno mentre vivremo in e per Lui in un mondo decaduto, affinché possiamo anche condividere la Sua gloria, per la quale quel sentiero di dolore è , non certo il meritorio, ma il capacitante, la preparazione.

In mezzo alle verità della vita e dell'amore, del Figlio, dello Spirito, del Padre, getta così nella verità del dolore. Non dimentichiamolo. In una forma o nell'altra, è per tutti "i bambini". Non tutti sono martiri, non tutti sono esuli o prigionieri, non tutti sono chiamati di fatto a subire insulti aperti in un mondo provocatorio di paganesimo e incredulità. Molti sono ancora così chiamati, come molti furono all'inizio, e come molti saranno fino alla fine; poiché "il mondo" non è più ora di quanto non sia mai stato innamorato di Dio e dei Suoi figli in quanto tali.

Ma anche per coloro il cui cammino non è protetto da se stessi ma dal Signore, il più protetto deve esserci "sofferenza", in qualche modo, prima, dopo, in questa vita presente, se stanno davvero vivendo la vita dello Spirito, la vita di il figlio di Dio, "pagando il debito" della santità quotidiana, anche nelle sue forme più umili e mansuete. Bisogna osservare, tra l'altro, che è a tali sofferenze, e non ai dolori in genere, che si fa qui riferimento. Il cuore del Signore è aperto a tutti i dolori del Suo popolo, ed Egli può usarli tutti per la loro benedizione e per i Suoi fini.

Ma la "sofferenza con Lui" deve implicare un dolore dovuto alla nostra unione. Deve essere coinvolto nel nostro essere sue membra, utilizzato dal Capo per la sua opera. Deve essere la ferita della Sua "mano" o "piede" nel servire il Suo pensiero sovrano. Quale sarà la felicità del sequel corrispondente! "Affinché possiamo condividere la sua gloria"; non solo "essere glorificato", ma condividere la Sua gloria; uno splendore di vita, gioia e potenza la cui legge eterna sarà l'anima, l'unione con Colui che è morto per noi ed è risorto.

Ora verso quella prospettiva tutto il pensiero di S. Paolo si rivolge, come le acque tramontano verso la luna, e la menzione di quella gloria, dopo la sofferenza, lo attira alla vista della potente «plurità» della gloria. Infatti, secondo me, «calcolo» - parola di prosa sublime, qui più commovente della poesia, perché ci invita a trattare la speranza della gloria come un fatto - che non sono degne di menzione le sofferenze della presente stagione; (pensa al tempo non nella sua lunghezza, ma nel suo limite), in vista della gloria che sta per essere svelata su di noi, svelata e poi ammucchiata su di noi, nella sua pienezza d'oro.

Perché ci darà una ragione profonda per il suo "calcolo"; meravigliosamente caratteristico del Vangelo. È che la gloria finale dei santi sarà una crisi di misteriosa benedizione per l'intero Universo creato. In modi assolutamente sconosciuti, certamente per quanto detto in questo brano, ma non per questo meno divinamente adatto e sicuro, l'ultima ed eterna manifestazione di Cristo Mistico, il Capo Perfetto con le sue membra perfette, sarà l'occasione, e in un certo senso anche la causa, la causa mediatrice, dell'emancipazione della "Natura", nelle sue altezze e profondità, dal cancro del decadimento, e il suo ingresso in un eone infinito di vita e splendore indissolubili.

Senza dubbio questo obiettivo sarà raggiunto attraverso lunghi processi e intense crisi di conflitto e morte. La "natura", come il santo, può aver bisogno di passare alla gloria attraverso una tomba. Ma il risultato sarà davvero la gloria, quando Colui che è il Capo insieme della "Natura", delle nazioni celesti e dell'uomo redento, farà cessare i vasti periodi di conflitto e di dissoluzione, nell'ora del proposito eterno, e deve manifestamente "essere ciò che Egli è" per il potente totale.

Con una tale prospettiva la filosofia naturale non ha nulla a che fare. Le sue stesse leggi di osservazione e tabulazione gli proibiscono di fare una singola affermazione di ciò che l'Universo sarà, o non sarà, in condizioni nuove e sconosciute. La Rivelazione, senza voce arbitraria, ma come messaggero autorizzato e riservato del Creatore, e in piedi presso la Tomba aperta della Risurrezione, annuncia che ci devono essere condizioni profondamente nuove, e che esse hanno una relazione imperscrutabile, ma necessaria al futura glorificazione di Cristo e della sua Chiesa.

E ciò che ora vediamo e sentiamo come le imperfezioni, gli shock e gli apparenti fallimenti dell'Universo, così impariamo da questa voce, una voce così calma eppure così trionfante, sono solo per così dire gli spasimi della nascita, in cui "Natura", impersonale sì, ma per così dire animata dal pensiero degli ordini intelligenti che fanno parte del suo essere universale, prelude al suo meraviglioso futuro.

Perché l'attesa della creazione è attesa, lo svelamento dei figli di Dio. Perché alla vanità, al male, al fallimento e al decadimento, la creazione è stata soggetta non volontariamente, ma a causa di Colui che l'ha soggetta; il suo Signore e Sostenitore, che nella Sua imperscrutabile ma santa volontà ordinò che il male fisico corrispondesse al male morale delle Sue creature coscienti cadute, angeli o uomini. Così che c'è una connessione più profonda di quella che possiamo ancora analizzare tra il peccato, il male primario e centrale, e tutto ciò che è veramente naufragio o dolore.

Ma questa "sottomissione", sotto il suo fiat, era nella speranza, perché la stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione nella libertà della gloria dei figli di Dio, la libertà che le viene conferita dalla loro eterna liberazione dal ultime reliquie della caduta. Poiché sappiamo, osservando il male naturale, alla luce delle promesse, che l'intera creazione emette un gemito comune di affanno e di anelito, e soffre di un comune dolore del parto, fino ad ora, quando il Vangelo ha annunciato la gloria imminente.

Né solo così, ma anche i possessori effettivi delle primizie dello Spirito, possessori di quella presenza del Santo in loro ora, che è il pegno sicuro della Sua eterna pienezza ancora a venire, anche noi stessi, riccamente benedetti come noi siamo nella nostra meravigliosa vita spirituale, eppure in noi stessi gemiamo, gravati ancora da condizioni mortali gravide di tentazione, giacendo non solo intorno a noi, ma nel profondo, aspettando l'adozione, la piena affermazione nella fruizione della filiazione che già è nostra, anche la redenzione del nostro corpo.

Dalle future glorie dell'Universo ritorna nella coscienza di un cuore ispirato ma umano, all'attuale disciplina e carico del cristiano. Osserviamo il nobile candore delle parole; questo "gemito" si è interposto in mezzo a tale canto dello Spirito e di gloria. Non ha l'ambizione di atteggiarsi a possessore di un'esperienza impossibile. È più che vincitore; ma è consapevole dei suoi nemici.

Lo Spirito Santo è in lui; fa le pratiche del corpo vittoriosamente fino alla morte per opera dello Spirito Santo. Ma il corpo è lì, come sede e veicolo di molteplici tentazioni. E sebbene vi sia una gioia nella vittoria che a volte può far sembrare "tutta gioia" anche la presenza della tentazione, Giacomo 1:2 sa che qualcosa di "molto meglio" deve ancora venire.

Il suo desiderio non è solo per una vittoria personale, ma per un servizio eternamente senza ostacoli. Questo non sarà completamente suo finché tutto il suo essere non sarà effettivamente, così come nel patto, redento. Ciò non accadrà finché non solo lo spirito, ma il corpo non sarà liberato dalle ultime tracce oscure della Caduta, nell'ora della resurrezione.

Perché è quanto alla nostra speranza che siamo salvati. Quando il Signore ci ha afferrati, siamo stati davvero salvati, ma con una salvezza che era solo in parte attuale. Il suo totale non doveva essere realizzato fino a quando l'intero essere non fosse in effettiva salvezza. Tale salvezza (vedi sotto, 13) coincideva in prospettiva con "la Speranza", "quella benedetta Speranza", il Ritorno del Signore e la gloria della Risurrezione. Quindi, per parafrasare questa clausola, "E' stato nel senso della Speranza che siamo stati salvati.

Ma una speranza in vista non è una speranza; poiché, ciò che un uomo vede, perché spera? La speranza, in tal caso, è, per sua natura, spirata in possesso. E la nostra piena "salvezza" è una speranza; è legato a una Promessa non ancora adempiuta, quindi, per sua natura, è ancora invisibile, ancora non raggiunto. Ma poi è certo, è infinitamente valido, vale la pena aspettare. Ma se, per quello che noi non vediamo, speriamo, guardando con buoni motivi l'alba nell'oscuro Oriente, con pazienza l'aspettiamo.

"Con pazienza", letteralmente "attraverso la pazienza". La "pazienza" è come il mezzo, il segreto, dell'attesa; "pazienza", quella nobile parola del vocabolario neotestamentario, la sottomissione attiva del santo, l'azione sottomessa, sotto la volontà di Dio. Non è una prostrazione snervante e immobile; è l'andare in avanti e verso l'alto, passo dopo passo, come l'uomo «aspetta il Signore, cammina e non viene meno».

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