Al mattino, rientrando in città, aveva fame. Questa fame, sebbene reale e pressante, era misteriosa e offre un'opportunità di dare istruzione sia agli ebrei che a tutti i suoi discepoli. Presso il fico era rappresentata la sinagoga ebraica; la fame di Cristo era una figura del suo estremo desiderio di trovarla produttiva di buone opere, (e non c'è tempo né stagione in cui i servi di Dio possono essere dispensati dal portare opere buone) rispondente alle fatiche di coltivazione che aveva preso per più di tre anni.

Le foglie erano il loro pomposo spettacolo del servizio esteriore, il fogliame sterile dei riti legali, prive dello spirito interiore e delle buone opere, il solo prezioso prodotto dell'albero. Con l'appassimento dell'albero dopo l'imprecazione di Cristo, sono rappresentate la riprovazione e l'assoluta sterilità della sinagoga. S. Marco osserva (xi. 13) che non era la stagione dei fichi; né dobbiamo supporre che il nostro Salvatore sia salito all'albero aspettandosi di trovare frutto; ma se alcuni degli evangelisti menzionano questa circostanza, riferiscono solo le supposizioni dei discepoli.

Sebbene in precedenza avesse mostrato la sua potenza con innumerevoli miracoli, Cristo lo riteneva ancora necessario per eccitare il cuore dei suoi discepoli a una maggiore fiducia. Aveva spesso esercitato il suo potere per fare del bene, ma ora per la prima volta si mostra capace di punire. Così testimonia agli apostoli e agli stessi ebrei che avrebbe potuto con una parola far appassire i suoi crocifissi, e quindi che sopportò volentieri l'estremo delle sofferenze che avrebbe dovuto subire in pochi giorni. (San Giovanni Crisostomo, hom. lxviii.)

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