Filippesi 2:20

L'esperienza dell'isolamento.

I. È una lamentela comune tra noi che vogliamo simpatia. Siamo soli, diciamo. Se non realmente solitari, siamo solitari nei sentimenti e nel cuore. Nella vita successiva le persone decidono di questo, come condizione della vita terrena. Lo hanno combattuto in gioventù; lo hanno ritenuto intollerabile; hanno pensato che l'esistenza stessa fosse priva di valore senza simpatia. Di tanto in tanto hanno immaginato per un breve periodo di aver trovato una simpatia reale e indistruttibile al di sotto, ma sono sopravvissute alla speranza; hanno conosciuto forse molte di queste speranze una per una e le sono sopravvissute tutte.

È bene che non abbiano acconsentito troppo a questa esperienza. I giovani sono troppo impazienti, troppo imperiosi, nella loro richiesta di simpatia; i vecchi a volte sono troppo tolleranti, almeno troppo affezionati all'isolamento.

II. La sete di amore umano di san Paolo non era quella cosa sentimentale, malaticcia, vaga, senza scopo che a volte può tra noi prendere il suo nome; non era il caso di lui, come troppo spesso accade a noi, che i migliori affetti del suo cuore vagassero in cerca di un oggetto, e che finché l'oggetto non si presentò in una forma umana era un roano inquieto e insoddisfatto. I migliori affetti di San Paolo erano impegnati e fissati inalterabile.

La simpatia che cercava era una simpatia nel suo lavoro per Cristo; la solitudine che lamentava era una solitudine nella sua cura per il popolo di Cristo. E se tale simpatia sarà ancora, come talora fu con san Paolo, negata o interrotta, tuttavia anche allora impareremo, come lui, in qualunque stato ci troviamo, di ciò ad accontentarci. Se amiamo veramente Cristo e cerchiamo giorno dopo giorno di servirlo, abbiamo in noi la radice di ogni conforto e la sorgente di ogni simpatia. Coloro che sono uniti in Lui sono davvero uniti gli uni negli altri.

CJ Vaughan, Lezioni sui Filippesi, p. 151.

Continua dopo la pubblicità
Continua dopo la pubblicità