Romani 14:1-23

1 Quanto a colui che è debole nella fede, accoglietelo, ma non per discutere opinioni.

2 L'uno crede di poter mangiare di tutto, mentre l'altro, che è debole, mangia legumi.

3 Colui che mangia di tutto, non sprezzi colui che non mangia di tutto; e colui che non mangia di tutto, non giudichi colui che mangia di tutto: perché Dio l'ha accolto.

4 Chi sei tu che giudichi il domestico altrui? Se sta in piedi o se cade è cosa che riguarda il suo padrone; a egli sarà tenuto in piè, perché il Signore è potente da farlo stare in piè.

5 L'uno stima un giorno più d'un altro; l'altro stima tutti i giorni uguali; sia ciascuno pienamente convinto nella propria mente.

6 Chi ha riguardo al giorno, lo fa per il Signore; e chi mangia di tutto, lo fa per il Signore, perché rende grazie a Dio; e chi non mangia di tutto fa così per il Signore, e rende grazie a Dio.

7 Poiché nessuno di noi vive per se stesso, e nessuno muore per se stesso;

8 perché, se viviamo, viviamo per il Signore; e se moriamo, moriamo per il Signore; sia dunque che viviamo o che moriamo, noi siamo del Signore.

9 Poiché a questo fine Cristo è morto ed è tornato in vita: per essere il Signore e de' morti e de' viventi.

10 Ma tu, perché giudichi il tuo fratello? E anche tu, perché disprezzi il tuo fratello? Poiché tutti compariremo davanti al tribunale di Dio;

11 infatti sta scritto: Com'io vivo, dice il Signore, ogni ginocchio si piegherà davanti a me, ed ogni lingua darà gloria a Dio.

12 Così dunque ciascun di noi renderà conto di se stesso a Dio.

13 Non ci giudichiamo dunque più gli uni gli altri, ma giudicate piuttosto che non dovete porre pietra d'inciampo sulla via del fratello, né essergli occasione di caduta.

14 Io so e son persuaso nel Signor Gesù che nessuna cosa è impura in se stessa; però se uno stima che una cosa è impura, per lui è impura.

15 Ora, se a motivo di un cibo il tuo fratello è contristato, tu non procedi più secondo carità. Non perdere, col tuo cibo, colui per il quale Cristo è morto!

16 Il privilegio che avete, non sia dunque oggetto di biasimo;

17 perché il regno di Dio non consiste in vivanda né in bevanda, ma è giustizia, pace ed allegrezza nello pirito Santo.

18 Poiché chi serve in questo a Cristo, è gradito a Dio e approvato dagli uomini.

19 Cerchiamo dunque le cose che contribuiscono alla pace e alla mutua edificazione.

20 Non disfare, per un cibo, l'opera di Dio. Certo, tutte le cose son pure ma è male quand'uno mangia dando intoppo.

21 E' bene non mangiar carne, né bever vino, né far cosa alcuna che possa esser d'intoppo al fratello.

22 Tu, la convinzione che hai, serbala per te stesso dinanzi a Dio. Beato colui che non condanna se stesso n quello che approva.

23 Ma colui che sta in dubbio, se mangia è condannato, perché non mangia con convinzione; e tutto quello che non vien da convinzione è peccato.

Capitolo 29

DOVERE CRISTIANO: TENEREZZA E TOLLERANZA RECIPROCA: LA SACREDITÀ DELL'ESEMPIO

Romani 14:1

MA colui che è debole - potremmo quasi rendere, colui che soffre di debolezza, nella sua fede (nel senso qui non di credo, significato di raro in san Paolo, ma di affidamento al suo Signore; affidamento non solo per giustificazione ma, in questo caso, per santa libertà), accoglienza in comunione-non per critiche dei suoi scrupoli, del suo διαλογισμοί, degli ansiosi dibattiti interni della coscienza.

Un uomo crede, ha fede, emanando una convinzione di libertà, in modo e grado tale da mangiare ogni sorta di cibo; ma l'uomo debole mangia solo verdura; un caso estremo, ma senza dubbio non raro, in cui un convertito, stanco dei propri scrupoli tra cibo e cibo, taglia il nodo rifiutando del tutto la carne carne. Il mangiatore non disprezzi il non mangiatore; mentre il non-mangiatore-non giudichi il mangiatore: perché il nostro Dio lo ha accolto nella comunione, quando è venuto ai piedi di suo Figlio per essere accolto.

Tu-chi sei, giudicando così il domestico di un Altro? Al proprio Signore, al proprio Maestro. sta, in approvazione, -o, se ciò deve essere, cade nel dispiacere; ma sarà sostenuto in approvazione; poiché è capace quel Signore di metterlo così, di dirgli di "stare in piedi", sotto il Suo sorriso di approvazione. Un uomo distingue giorno dopo giorno; mentre un altro distingue ogni giorno; una frase paradossale ma intelligibile; descrive il pensiero dell'uomo che, meno ansioso del suo vicino per i "giorni festivi" dichiarati, mira ancora non ad "abbassare di livello" ma ad "aumentare di livello" il suo uso del tempo; per contare ogni giorno "santo", egualmente dedicato alla volontà e all'opera di Dio.

Ciascuno sia del tutto sicuro nella propria mente; servendosi della forza di pensiero datagli dal suo Maestro, che elabori riverentemente la questione, e poi sia all'altezza delle sue convinzioni accertate, mentre (questo è suggerito dall'enfatico "suo proprio pensiero") rispetta le convinzioni del suo prossimo. L'uomo che "pensa" al giorno, al "giorno santo" in questione, in ogni caso, al Signore lo "pensa"; (e l'uomo che "non bada" al giorno, al Signore non "si bada" a esso); entrambe le parti, come cristiani, nelle loro convinzioni e nella loro pratica, sono legate e responsabili, direttamente e principalmente al Signore; questo fatto deve sempre governare e qualificare i loro reciproci giudizi.

E il mangiatore, l'uomo che prende il cibo indifferentemente senza scrupoli, mangia al Signore, perché rende grazie a Dio durante il suo pasto; e il non-mangiatore, al Signore non mangia il cibo disprezzato, e rende grazie a Dio per quello di cui la sua coscienza gli permette di partecipare.

Il collegamento del paragrafo appena attraversato con ciò che lo precede è suggestivo e istruttivo. C'è una stretta connessione tra i due; è contrassegnato espressamente dal "ma" (δέ) del ver. 1 ( Romani 14:1 ), un collegamento stranamente mancato nella Versione Autorizzata. Il "ma" indica una differenza di pensiero, per quanto lieve, tra i due passaggi.

E la differenza per come la leggiamo, è questa. La fine del tredicesimo capitolo è andata tutta nella direzione della veglia cristiana, della decisione e del campo di battaglia della conquista della fede. Il convertito romano, risvegliato dal suo suono di tromba, sarà ansioso di alzarsi e di agire, contro il nemico e per il suo Signore, armato dalla testa ai piedi di Cristo. Piegherà tutto il suo proposito su una vita di santità aperta e attiva.

Sarà riempito di un nuovo senso insieme della serietà e della libertà del Vangelo. Ma poi qualche "fratello debole" incrocerà il suo cammino. Sarà qualche convertito di recente, forse dal giudaismo stesso, forse un ex pagano, ma influenzato dalle idee ebraiche così prevalenti all'epoca in molti circoli romani. Questo cristiano, non diffidente, almeno in teoria, del solo Signore per il perdono e l'accoglienza, è però tutto pieno di scrupoli che, all'uomo pienamente «armato di Cristo», possono sembrare, e sembrano, deplorevolmente morbosi, errori e ostacoli davvero gravi.

Il "fratello debole" Dedica molto tempo allo studio delle regole tradizionali del digiuno e del banchetto e del codice del cibo consentito. È certo che il Dio che l'ha accolto gli nasconderà il suo volto se lascerà passare la luna nuova come un giorno qualunque; o se il sabato non è osservato dalla regola, non della Scrittura, ma dei rabbini. Ogni pasto sociale gli dà occasione penosa e frequente di dar fastidio a se stesso e agli altri; si rifugia forse in un ansioso vegetarianismo, nella disperazione di mantenersi altrimenti incontaminato.

E inevitabilmente tali scrupoli non si esauriscono in se stessi. Infettano l'intero tono di pensiero e di azione dell'uomo. Interroga e discute di tutto, con se stesso, se non con gli altri. Sta per lasciare che la sua visione dell'accettazione in Cristo diventi più debole e più confusa. Cammina, vive; ma si muove come un uomo incatenato, e in prigione.

Un caso come questo sarebbe una grave tentazione per il cristiano "forte". Sarebbe molto incline, di per sé, prima a fare una vigorosa protesta, e poi, se la difficoltà si fosse rivelata ostinata, a pensare a duri pensieri del suo amico di mentalità ristretta; dubitare affatto del suo diritto al nome cristiano; per rimproverarlo, o (peggio ancora) per fargli satira. Nel frattempo anche il "debole" cristiano avrebbe avuto i suoi pensieri duri.

Non avrebbe, in alcun modo, certo, mostrato tanta mansuetudine quanto "debolezza". Farebbe vedere al suo prossimo, in un modo o nell'altro, che lo considerava poco migliore di un mondano, che faceva di Cristo una scusa per l'autoindulgenza personale.

Come affronta l'Apostolo il caso difficile, che tanto spesso deve aver incrociato il suo stesso cammino, e talvolta sotto forma di aspra opposizione da parte di coloro che "soffrivano di debolezza nella fede"? È del tutto evidente che le sue convinzioni ricadevano sui "forti", per quanto riguardava il principio. Egli "sapeva che nulla era impuro" ( Romani 14:14 ).

Sapeva che il Signore non era addolorato, ma compiaciuto, per l'uso moderato e grato, non turbato da paure morbose, dei suoi doni naturali. Sapeva che il sistema delle feste ebraiche aveva trovato il suo scopo e la sua fine nel perpetuo " 1 Corinzi 5:3 la festa" 1 Corinzi 5:3 della vita felice e consacrata del vero credente. E di conseguenza, di passaggio, rimprovera "i deboli" per le loro dure critiche (κρίνειν) dei "forti.

Ma poi, getta ancora più peso, il peso principale, sui suoi rimproveri e avvertimenti ai "forti". nell'amore"; prendere parte contro se stessi; vivere in questa materia, come in ogni altra cosa, per gli altri. Non dovevano affatto vergognarsi dei loro princìpi speciali.

Ma dovevano vergognarsi profondamente di un'ora di condotta non amorevole. Dovevano essere tranquillamente convinti, nel rispetto del giudizio privato. Dovevano essere più che tolleranti - dovevano essere amorevoli - nel rispetto della vita comune nel Signore.

La loro "forza" in Cristo non doveva mai essere scortese; non essere mai "usata come quella di un gigante". Doveva essere mostrato, prima di tutto, dalla pazienza. Doveva assumere la forma della calma, forte disponibilità a comprendere il punto di vista dell'altro. Doveva apparire come una riverenza per la coscienza di un altro, anche quando la coscienza si smarriva per mancanza di luce migliore.

Portiamo questo principio apostolico nella vita religiosa moderna. Ci sono momenti in cui saremo particolarmente tenuti a metterlo attentamente in relazione ad altri principi, naturalmente. Quando san Paolo, alcuni mesi prima, scrisse alla Galazia, e dovette fare i conti con un errore che offuscava tutta la verità della via del peccatore a Dio come si trova direttamente attraverso Cristo, non disse: "Sia ogni uomo ben sicuro nella sua stessa mente.

" Disse Romani 1:8 "Se un angelo dal cielo predica un altro Vangelo, che non è un altro, sia anatema." La domanda che c'era era: Cristo è tutto o non è? no, per averlo afferrato?Anche in Galazia, ha avvertito i convertiti del miserabile e fatale errore di "mordersi e divorarsi l'un l'altro".

Galati 5:15 Ma li scongiurò di non rovinare la loro pace con Dio per un errore fondamentale. Qui, a Roma, la questione era diversa; era secondario. Riguardava alcuni dettagli della pratica cristiana. Un cerimoniale logoro ed esagerato faceva parte della volontà di Dio, nella vita del credente giustificato? Non era così, di fatto.

Eppure era un argomento su cui il Signore, per mezzo del suo Apostolo, consigliava piuttosto che comandare. Non era della fondazione. E la legge sempre prevalente per la discussione era la tolleranza nata dall'amore. Ricordiamolo ai nostri giorni, sia che le nostre più intime simpatie siano per "i forti" o per "i deboli". In Gesù Cristo è possibile realizzare l'ideale di questo paragrafo anche nella nostra cristianità divisa.

È possibile essere convinti, ma comprensivi. È possibile vedere di persona il Signore con gloriosa chiarezza, ma comprendere le difficoltà pratiche provate dagli altri, e amare, e rispettare, là dove ci sono anche grandi divergenze. Nessun uomo lavora più per un consenso spirituale finale di colui che, in Cristo, così vive.

Per inciso, intanto, l'Apostolo, in questo passo che tanto frena «i forti», lascia cadere le massime che proteggono per sempre tutto ciò che è buono e vero in quella frase logora e spesso abusata, «il diritto di giudizio privato». Nessun despota spirituale, nessun pretendente di essere il direttore autocratico di una coscienza, avrebbe potuto scrivere quelle parole: "Sia ciascuno ben certo nella propria mente"; "Chi sei tu che giudichi il domestico di un altro?" Tali sentenze affermano non tanto il diritto quanto il dovere, per il singolo cristiano, di un riverente "pensare per se stesso".

Mantengono un vero e nobile individualismo. E c'è proprio ora nella Chiesa un bisogno speciale di ricordare, al suo posto, il valore dell'individualismo cristiano. L'idea di comunità, di società, è proprio ora così largamente prevalente (senza dubbio non senza la provvidenza di Dio) nella vita umana, e anche nella Chiesa, che spesso è necessaria un'affermazione dell'individuo, un tempo sproporzionata, perché l'idea sociale non venga a sua volta esagerata in un pericoloso errore.

Coerenza, mutualità, verità dell'Ente e dei Membri; tutto questo, al suo posto, non è solo importante, ma divino. L'individuo deve inevitabilmente perdere dove l'individualismo è tutta la sua idea. Ma è un male per la comunità, soprattutto per la Chiesa, dove nel totale l'individuo tende proprio a fondersi ea perdersi. Guai per la Chiesa, dove la Chiesa cerca di prendere il posto dell'individuo nella conoscenza di Dio, nell'amore di Cristo, nella potenza dello Spirito.

La Comunità religiosa, infatti, deve inevitabilmente perdere là dove il comunismo religioso è tutta la sua idea. Può essere perfettamente forte solo dove le coscienze individuali sono tenere e illuminate; dove le singole anime conoscono personalmente Dio in Cristo; dove le volontà individuali sono pronte, se il Signore chiama, a stare da solo per la verità conosciuta anche contro la Società religiosa; -se anche lì l'individualismo non è volontà propria, ma responsabilità personale cristiana; se l'uomo "pensa da solo" in ginocchio; se riverisce l'individualismo degli altri e le relazioni di ciascuno con tutti.

L'individualismo di Romani 14:1 , affermato in un argomento pieno dei più profondi segreti della coesione, è la cosa santa e salutare che è perché è cristiano. Si sviluppa non dall'affermazione di sé, ma dalla comunione individuale con Cristo.

Ora passa a ulteriori e ancora più complete dichiarazioni nella stessa direzione.

Nessuno di noi vive per se stesso e nessuno di noi muore per se stesso. Come e perché? È semplicemente che "noi" viviamo sempre vite, necessariamente in relazione l'una con l'altra? Ha davvero questo nel cuore. Ma lo raggiunge attraverso la verità più grande, più profonda, antecedente della nostra relazione con il Signore. Il cristiano è legato al fratello cristiano per Cristo, non a Cristo per il fratello, o per l'organismo comune in cui i fratelli sono « membra l'uno dell'altro.

«Al Signore», con assoluta immediatezza, con una perfetta e mirabile immediatezza, ogni singolo cristiano è innanzitutto riferito. La sua vita e la sua morte sono «ad altri», ma per mezzo di lui. La pretesa del Maestro è eternamente prima; poiché è basata direttamente sull'opera redentrice in cui ci ha acquistati per sé.

Se infatti viviamo, per il Signore viviamo; e se siamo morti, per il Signore siamo morti; nello stato del defunto, come prima, "la relazione sta". Allo stesso modo, quindi, sia che siamo morti, sia che viviamo, siamo del Signore; La sua proprietà, legata prima e in tutto al suo possesso. Poiché a tal fine Cristo è morto e vissuto di nuovo, per diventare Signore di noi morti e vivi.

Ecco la profonda verità vista già in precedenti passaggi dell'Epistola. L'abbiamo fatto ragionare, soprattutto nel capitolo sesto, nella sua rivelazione della via della Santità, che i nostri soli rapporti retti possibili con il Signore sono stretti e governati dal fatto che a Lui apparteniamo giustamente ed eternamente. Lì, tuttavia, il pensiero era più della nostra resa sotto i suoi diritti. Qui si tratta del possente fatto antecedente, in base al quale la nostra resa più assoluta non è altro che il riconoscimento della Sua irrevocabile pretesa.

Ciò che l'Apostolo dice qui, in questo meraviglioso passaggio di dottrina e dovere mescolati, è che, indipendentemente dal fatto che noi possediamo o no il nostro vassallaggio a Cristo, non siamo altro che de jure Suoi vassalli. Non solo ci ha salvati, ma ci ha salvati in modo tale da comprarci per i suoi. Possiamo essere fedeli al fatto nel nostro atteggiamento interno; potremmo esserne ignari; ma non possiamo farne a meno. Ci guarda ogni ora in faccia, che rispondiamo o meno. Ci guarderà ancora in faccia attraverso la vita infinita a venire.

Perché evidentemente è questo aspetto oggettivo della nostra "appartenenza" che è qui in questione. San Paolo, non è ragionare con i "deboli" ei "forti" dalla loro esperienza, dalla loro lealtà consapevole al Signore. Piuttosto, li sta chiamando a una nuova realizzazione di come dovrebbe essere tale lealtà. È per questo che ricorda loro l'eterna pretesa del Signore, compiuta nella sua morte e risurrezione; La Sua pretesa di essere così il loro Maestro, individualmente e insieme, che ogni pensiero l'uno sull'altro doveva essere governato da quella Sua pretesa su tutti loro.

“Il Signore” deve sempre interporsi; con un diritto inalienabile. Ogni cristiano è annesso, da tutte le leggi del Cielo, a Lui. Quindi ognuno non deve fare, ma realizzare quell'annessione, in ogni pensiero al prossimo e al fratello.

Il brano ci invita intanto a un'ulteriore osservazione, in un'altra direzione. È uno di quegli enunciati che, luminosi di luce data dal loro contesto, brillano anche di luce propria, donandoci rivelazioni indipendenti dalla materia circostante. Qui appare una tale rivelazione; influisce sulla nostra conoscenza dello Stato Intermedio.

L'Apostolo, quattro volte in questo breve paragrafo, fa menzione della morte e dei morti. "Nessuno di noi muore a se stesso"; "Se moriamo, moriamo per il Signore"; "Se moriamo, siamo del Signore"; "Affinché possa essere il Signore dei morti". E quest'ultima frase, con la menzione non dei moribondi, ma dei morti, ci ricorda che il riferimento in tutte è al rapporto del cristiano con il suo Signore, non solo nell'ora della morte, ma nello stato dopo la morte.

Non è solo che Gesù Cristo, come l'ucciso risorto, è l'assoluto Dispensatore del tempo e del modo del nostro morire. Non è solo che quando verrà la nostra morte, dobbiamo accettarla come un'opportunità per la "glorificazione di Dio" Giovanni 21:19 , Filippesi 1:20 negli occhi e nella memoria di coloro che la conoscono. È che quando siamo "passati attraverso la morte" e siamo usciti dall'altra parte,

"Quando entriamo in quelle regioni, quando tocchiamo la riva sacra", la nostra relazione con l'Ucciso risorto, con Colui che, come tale, "ha le chiavi dell'Ades e della morte", Apocalisse 1:18 è perfettamente continua e il stesso. È il nostro Maestro assoluto, là come qui. E noi, per conseguenza e correlazione, siamo vassalli, servi, servi di Lui, là come qui.

Ecco una verità che, non possiamo non pensare, ripaga riccamente il ripetuto ricordo e riflessione del cristiano; e che non solo nel modo di affermare su di noi i diritti eterni del nostro beato Redentore, ma nel modo di portare luce, e pace, e il senso della realtà e dell'attesa, sia sulla prospettiva del nostro passaggio nell'eternità che sulla pensieri che abbiamo della vita presente dei nostri santi prediletti che vi sono entrati prima di noi.

È prezioso tutto ciò che realmente assiste l'anima in tali pensieri, e nello stesso tempo la mantiene pienamente e praticamente viva alle realtà della fede, della pazienza e dell'obbedienza quaggiù, qui nell'ora presente. Mentre l'indulgenza dell'immaginazione non autorizzata in quella direzione è quasi sempre snervante e disturbante per l'attuale azione della fede scritturale, il minimo aiuto a una solida realizzazione e anticipazione, fornito dalla Parola che non può mentire, è per sua natura sia santificato che fortificante. Un tale aiuto l'abbiamo sicuramente qui.

Colui che è morto e risorto è in quest'ora, in santa potenza e diritto, "il Signore" dei beati morti. Allora i beati morti sono vassalli e servi di Colui che è morto e risorto. E tutto il nostro pensiero su di loro, come sono ora, a quest'ora, "in quelle celesti dimore, dove le anime di coloro che dormono nel Signore Gesù godono perenne riposo e felicità", guadagna indefinitamente in vita, in realtà, in forza e gloria, come li vediamo, attraverso questa "porta in cielo" stretta ma luminosa, Apocalisse 5:1 non solo riposando, ma servendo anche davanti al loro Signore, che li ha comprati per il suo uso e che li tiene nel suo uso proprio come veramente ora come quando abbiamo avuto la gioia della loro presenza con noi, ed è stato visto da noi vivere e operare in loro e attraverso di loro qui.

È vero che il carattere principale ed essenziale del loro stato attuale è il riposo, come quello del loro stato di resurrezione sarà l'azione. Ma i due stati traboccano l'uno nell'altro. In un glorioso passo l'Apostolo descrive la beatitudine della risurrezione anche come "riposo". 2 Tessalonicesi 1:7 E qui abbiamo indicato che il celeste riposo intermedio è anche servizio.

Quale sia la natura precisa di quel servizio non possiamo dirlo. "La nostra conoscenza di quella vita è piccola." Certamente, "invano la nostra fantasia si sforza di dipingere" la sua beatitudine, sia di riposo che di occupazione. Questo fa parte della nostra sorte normale e scelta da Dio qui, che è "camminare per fede, non per visione", 2 Corinzi 5:7 ού διά είδους, "non per oggetto visto", non per oggetti visti.

Ma benedetta è l'assistenza spirituale in tale cammino, come ricordiamo, passo dopo passo, mentre ci avviciniamo a quella felice assemblea di sopra, che, qualunque sia il modo e l'esercizio della loro santa vita, è davvero la vita; potere, non debolezza; servizio, non inattività. Colui che è morto e risorto è Signore, non solo di noi, ma di loro.

Ma da questa escursione nel sacro Invisibile dobbiamo tornare. San Paolo è ora intento al cammino del credente di amare il grande cuore in questa vita, non nella prossima. Ma tu-perché giudichi tuo fratello? (riprende il verbo, κρίνειν, usato nel suo precedente appello ai "deboli", Romani 14:3 ). O anche tu (si rivolge al "forte"; cfr. ancora Romani 14:3 14,3) - perché disprezzi tuo fratello? Perché staremo, tutti noi, su un unico livello, qualunque fossero i nostri reciproci sentimenti sulla terra, qualunque pretesa abbiamo fatto qui a sedere come giudici sui nostri fratelli, davanti al tribunale del nostro Dio.

Perché sta scritto, Isaia 45:23 "Mentre io vivo, dice il Signore, certo è come il mio Essere eterno, che a me, non ad un altro, piegherà ogni ginocchio; e ogni lingua confesserà, attribuirà ogni sovranità, a Dio», non alla creatura. Allora ciascuno di noi, di se stesso, non delle colpe o degli errori del fratello, renderà conto a Dio.

Abbiamo qui, come in 2 Corinzi 5:10 , e ancora, sotto altre immagini, 1 Corinzi 3:11 , un barlume di quella prospettiva 1 Corinzi 3:11 per il cristiano, la sua convocazione in seguito, come cristiano, al tribunale del suo Signore.

In tutti e tre i passaggi, e ora in particolare in questo, il linguaggio, sebbene si presti liberamente all'Assise universale, è limitato dal contesto, quanto al suo diretto significato, allo scrutinio del Padrone dei Suoi servitori in quanto tali. La questione da esaminare e decidere (parlando alla maniera degli uomini) al Suo "tribunale", in questo riferimento, non è quella della gloria o della perdizione; le persone degli esaminati sono accettate; l'inchiesta è, per così dire, nella corte domestica del Palazzo; riguarda il premio del Re per quanto riguarda i problemi e il valore del lavoro e della condotta dei Suoi servi accettati, come Suoi rappresentanti, nella loro vita mortale.

"Il Signore dei servi viene e fa i conti con loro". Matteo 25:19 Sono stati giustificati per fede. Sono stati uniti al loro Capo glorioso. Essi "saranno salvati", 1 Corinzi 3:15 qualunque sia il destino del loro "lavoro.

Ma cosa dirà il loro Signore del loro lavoro? Che cosa hanno fatto per Lui, nel lavoro, nella testimonianza e soprattutto nel carattere? Dirà loro ciò che pensa. Sarà infinitamente gentile, ma non lusingherà. E in qualche modo, sicuramente, - "non appare ancora" come, ma in qualche modo - l'eternità, anche l'eternità della salvezza, porterà l'impronta di quel premio, l'impronta del passato di servizio, stimata dal Re. "Che cosa accadrà il raccolto essere?"

E tutto questo avverrà (questo è l'accento particolare della prospettiva qui) con una solenne individualità di indagine. "Ognuno di noi - per se stesso - renderà conto." Abbiamo riflettuto, poco sopra, sul vero posto dell'"individualismo" nella vita della grazia. Vediamo qui che ci sarà davvero un posto per esso nelle esperienze dell'eternità. L'esame del "tribunale" riguarderà non la Società, l'Organismo, il totale, ma il membro, l'uomo.

Ciascuno starà lì in solenne solitudine, davanti al suo divino Esaminatore. Che cosa fosse, come membro del Signore, questa sarà la domanda. Quello che sarà, come tale, nelle funzioni dello stato infinito, questo sarà il risultato.

Non ci preoccupiamo per quella prospettiva con il problema del mondano, come se non conoscessimo Colui che ci scruterà e non Lo amassimo. Intorno al pensiero del suo "tribunale", sotto quell'aspetto, non si gettano terrori sterminatori. Ma è una prospettiva adatta a rendere grave e piena di propositi la vita che tuttavia «è nascosta con Cristo in Dio», e che è davvero vita per grazia. È un profondo promemoria che l'amato Salvatore è anche, e in nessun modo retorico, ma con un impegno eterno, anche il Maestro. Non vorremmo che Lui non fosse questo. Non sarebbe tutto ciò che è per noi come Salvatore, se non fosse anche questo, e per sempre.

San Paolo si affretta ad ulteriori appelli, dopo questa solenne previsione. E ora tutta la sua enfasi è posta sul dovere dei "forti" di usare la loro "forza" non per l'affermazione di sé, nemmeno per l'egoismo spirituale, ma tutto per Cristo, tutto per gli altri, tutto nell'amore.

Non più dunque giudichiamoci l'un l'altro; ma giudica, decidi, questo piuttosto, per non costituire un ostacolo per il nostro fratello, o una trappola. So - fa la sua stessa esperienza e principio - e sono certo nel Signore Gesù, come colui che è in unione e comunione con Lui, vedendo la verità e la vita da quel punto di vista, che niente, niente del genere in questione, nessun cibo , nessun tempo, è "impuro" di per sé; letteralmente, "per mezzo di se stesso", da qualsiasi danno inerente; solo per l'uomo che considera qualcosa di "impuro", per lui è impuro.

E quindi tu, perché non sei la sua coscienza, non devi manomettere la sua coscienza. È, in questo caso, sbagliato; sbagliato a sua stessa perdita e a danno della Chiesa. Sì, ma ciò che vuole non è la tua costrizione, ma la luce del Signore. Se puoi farlo, porta quella luce, in una testimonianza resa impressionante dall'amore santo e dalla considerazione disinteressata. Ma non osare, per amor di Cristo, costringere una coscienza.

Perché coscienza significa la migliore visione effettiva che l'uomo ha della legge del giusto e dell'ingiusto. Può essere una vista fioca e distorta; ma è il suo meglio in questo momento. Non può violarlo senza peccato, né puoi dirgli di farlo senza che tu pecchi. La coscienza potrebbe non vedere sempre bene. Ma trasgredire la coscienza è sempre sbagliato.

Perché - la parola riprende l'argomento in generale, piuttosto che l'ultimo dettaglio di esso - se per il cibo tuo fratello soffre il dolore, il dolore di una lotta morale tra le sue attuali convinzioni e il tuo esempio imperioso, hai rinunciato a camminare (ούκέτι περιπατεις) amore saggio. Non operate, con il vostro cibo, (c'è un punto di ricerca nel "tuo", toccando fino in fondo il profondo egoismo dell'azione), la sua rovina per cui Cristo è morto.

Tali frasi sono troppo intense e teneramente serie per essere chiamate sarcastiche; altrimenti, quanto sono fini e taglienti! "Per amor di cibo!" "Con il tuo cibo!" L'uomo è risvegliato dal sonno di quella che sembrava un'affermazione di libertà, ma dopotutto era piuttosto una sorda indulgenza di, cioè, una mera schiavitù a se stesso. "Mi piace questa carne; mi piace questa bevanda; non mi piace la preoccupazione di questi scrupoli; mi interrompono, mi danno fastidio.

"Uomo infelice! È meglio essere schiavo degli scrupoli che di se stessi. Per concedersi un altro piatto, disprezzeresti la coscienza di un amico ansioso e, per quanto riguarda la tua condotta, lo spingerai a violarla. Ma questo significa una spinta sul pendio che tende alla rovina spirituale.La via della perdizione è lastricata di coscienze violate.Il Signore può contrastare la tua azione e salvare il tuo fratello ferito da se stesso e da te.

Ma la tua azione è, nondimeno, calcolata per la sua perdizione. E intanto quest'anima, per la quale, in confronto alla tua ottusa e angusta «libertà»; ti importa così poco, è stato così tanto curato dal Signore che Egli è morto per questo.

Oh, pensiero consacrante, attaccato ora, per sempre, per il cristiano, ad ogni anima umana che può influenzare: "Per chi Cristo è morto!"

Non lasciate dunque che il vostro bene, il vostro credo glorioso della santa libertà in Cristo, sia insultato, dopo tutto solo come un'autoindulgenza appena velata; poiché il regno del nostro Dio non è nutrire e bere; Egli non reclama un trono nella tua anima, e nella tua Società, solo per allargare il tuo conto, per farne un tuo sacro privilegio, fine a se stesso, di prendere ciò che vuoi a tavola; ma la giustizia, sicuramente qui, nell'Epistola Romana, la "giustizia" della nostra divina accettazione, e la pace, la pace delle relazioni perfette con Lui in Cristo, e la gioia nello Spirito Santo, la pura e forte letizia del giustificato, come in il loro santuario di salvezza bevono "l'acqua viva" e "rallegrano sempre nel Signore.

«Colui che in questo modo vive come servo di Cristo, spendendo i suoi talenti spirituali non per se stesso, ma per il suo Maestro, è gradito al suo Dio ed è genuino per i suoi simili. Sì, resiste alla prova del loro attento esame Possono presto rilevare la contraffazione sotto asserzioni spirituali che affermano realmente se stessi.Ma la loro coscienza afferma la genuinità di una vita di santità disinteressata e felice, che la vita "non riverbera alcuna vacuità".

Pertanto, perseguiamo dunque gli interessi della pace e gli interessi di un'edificazione reciproca; la "edificazione" che guarda oltre l'uomo al fratello, ai fratelli, e tempra con quello sguardo anche i suoi progetti per la propria vita spirituale.

Di nuovo ritorna al grottesco doloroso di preferire le comodità personali, e anche l'affermazione del principio della libertà personale, al bene degli altri. Non per il cibo disfare l'opera del nostro Dio. "Tutte le cose sono pure"; senza dubbio cita una parola d'ordine spesso sentita; ed era la verità stessa in astratto, ma capace di diventare un errore fatale nella pratica; ma tutto è male per l'uomo che è portato da un ostacolo a mangiarlo. Sì, questo è male. Cosa c'è di buono in contrasto?

È bene non mangiare carne, e non bere vino (parola per il nostro tempo e le sue condizioni), e non fare nulla in cui il tuo fratello sia inciampato, o intrappolato, o indebolito. Sì, questa è la libertà cristiana; una liberazione dalla legge forte e sottile di sé; una libertà di vivere per gli altri, indipendente dal loro male, ma serva delle loro anime.

Tu, la fede che hai, abbila da solo, alla presenza del tuo Dio. hai creduto; sei dunque in Cristo; in Cristo siete dunque liberi, per fede, dalle restrizioni preparatorie del passato. Sì; ma tutto questo non ti è dato per sfoggio personale, ma per comunione divina. La sua giusta uscita è in una santa intimità con il tuo Dio, poiché nella fiducia della tua accettazione lo conosci come tuo Padre, "niente in mezzo.

«Ma per quanto riguarda i rapporti umani, tu sei emancipato non per disturbare i vicini con grida di libertà e atti di licenza, ma per essere libero di servirli con amore. Felice l'uomo che non si giudica, che fa non, in effetti, decidere contro la propria anima, in ciò che approva, δοκιμάζει, giudica soddisfacente per la coscienza.Infelice colui che dice a se stesso: "Questo è lecito", quando il verdetto è nel frattempo acquistato dall'amor proprio, o altrimenti dall'impresa: dell'uomo, e l'anima sa nel suo intimo che la cosa non è come dovrebbe essere.

E l'uomo che è dubbioso, la cui coscienza non è veramente soddisfatta tra il bene e il male della materia, se mangia, è condannato, nel tribunale del proprio cuore, e dell'opinione del suo addolorato Signore, perché non era il risultato della fede; l'azione non aveva per fondamento la santa convinzione della libertà del giustificato. Ora, tutto ciò che non è il risultato della fede, è peccato; vale a dire, manifestamente, "qualcosa" in un caso come questo; ogni indulgenza, ogni obbedienza all'esempio, per la quale l'uomo, in uno stato di ambiguità interiore, decide su un principio diverso da quello della sua unione con Cristo per fede.

Così l'Apostolo della Giustificazione, e dello Spirito Santo, è anche l'Apostolo della Coscienza. È urgente tanto sulla terribile sacralità del nostro senso di giusto e sbagliato, quanto sull'offerta e la sicurezza, in Cristo, della pace con Dio, e la santa Inabitazione, e la speranza della gloria. Lascia che i nostri passi seguano con riverenza i suoi, mentre camminiamo con Dio e con gli uomini. "Rallegriamoci in Cristo Gesù", con una "gioia" che è "nello Spirito Santo". Rispettiamo il dovere, riveriamo la coscienza, nella nostra stessa vita, e anche nelle vite intorno a noi.

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