Capitolo 10

ABRAHAM E DAVID

Romani 4:1

IL disputante ebreo è ancora presente al pensiero dell'Apostolo. Non potrebbe essere diversamente in questo argomento. Nessuna domanda era più pressante nella mente ebraica di quella dell'Accettazione; fino a quel momento, in verità, l'insegnamento e la disciplina dell'Antico Testamento non erano stati vani. E san Paolo non solo, nel suo apostolato cristiano, aveva discusso innumerevoli volte quel problema con i combattenti rabbinici; era stato lui stesso un rabbino, e conosceva per esperienza sia i dubbi della coscienza del rabbino, sia i sotterfugi del suo ragionamento.

Così ora sorge davanti a lui il grande nome di Abramo, come parola d'ordine familiare della controversia dell'Accettazione. Si è battuto per un verdetto assolutamente inclusivo di "colpevolezza" contro l'uomo, contro ogni uomo. Ha chiuso con tutte le sue forze le porte del pensiero contro il "vantaggio" umano, contro la minima pretesa dell'uomo di aver meritato la sua accettazione. Può portare questo principio in questioni abbastanza imparziali? Può lui, ebreo in presenza di ebrei, applicarlo senza scuse, senza riserve, allo stesso "Amico di Dio"? Cosa dirà a quel maestoso Esempio di uomo? Il suo stesso nome suona quasi come una pretesa di adorazione.

Mentre si muove attraverso la scena della Genesi, noi, anche noi Gentili, ci alziamo per così dire in riverente omaggio, onorando questa figura insieme così reale e così vicina all'ideale; segnato da innumerevoli linee di individualità, totalmente diverso dal quadro composto di leggenda o poema, eppure camminando con Dio stesso in un rapporto personale così abituale, così tranquillo, così congeniale. È questo un nome da offuscare con l'affermazione che qui, come ovunque, l'accettazione era senza speranza se non per la clemenza di Dio "in dono, senza atti di legge"? Almeno Abramo non fu accettato perché moralmente degno di accettazione? E se Abramo, allora sicuramente, in astratta possibilità, anche altri. Ci deve essere un gruppo di uomini, piccoli o grandi, c'è almeno un uomo, che può "vantarsi" della sua pace con Dio.

D'altra parte, se con Abramo non fu così, allora l'inferenza è facile per tutti gli altri uomini. Chi se non lui è chiamato "l'Amico?" Isaia 41:8 Mosè stesso, il Legislatore quasi divinizzato, non è che "il Servo", fidato, intimo, onorato in grado sublime dal suo eterno Maestro. Ma non è mai chiamato "l'Amico". Quel titolo peculiare sembra precludere del tutto la questione dell'accettazione legale.

Chi pensa al suo amico come uno il cui rapporto con lui deve essere assolutamente buono in legge? L'amico sta per così dire dietro la legge, o al di sopra di essa, rispetto al suo simile. Tiene una relazione che implica simpatie personali, identità di interessi, contatto di pensiero e volontà, non un'ansiosa liquidazione preventiva dei crediti e la remissione delle passività. Se poi l'Amico del Giudice Eterno dimostra, nondimeno, di aver avuto bisogno della Giustificazione, e di averla ricevuta per il canale non del suo valore personale ma della grazia di Dio, ci sarà poca esitazione circa il bisogno degli altri uomini, e il modo per la quale solo altri uomini troveranno soddisfatta.

Nell'accostarsi a questo grande esempio, per tale si rivelerà, san Paolo si accinge ad illustrare tutti i punti salienti della sua argomentazione ispirata. A proposito, implicitamente, ci dà il fatto importantissimo che anche un Abramo, anche "l'Amico", aveva bisogno di giustificazione in qualche modo. Tale è l'Eterno Santo che nessun uomo può camminare al Suo fianco e vivere, no, non nel sentiero dell'"amicizia" più intima, senza un'accettazione davanti al Suo volto come Egli è Giudice.

D'altra parte, tale è Lui, che anche un Abramo trovò questa accoglienza, di fatto, non per merito, ma per fede; non presentandosi, ma rinunciando a se stesso, e prendendo Dio per tutti; supplicando non: "Io sono degno", ma: "Tu sei fedele". È da dimostrare che la giustificazione di Abramo era tale da non dargli il minimo motivo di applauso; non era minimamente basato sul merito.

Era "di grazia, non di debito". Una promessa di gentilezza sovrana. connessa con la redenzione di se stesso e del mondo, gli fu fatta. Non era moralmente degno di una simile promessa, se non altro perché non era moralmente perfetto. Ed era, umanamente parlando, fisicamente incapace di farlo. Ma Dio si offrì gratuitamente ad Abramo, nella sua promessa; e Abramo aprì le braccia vuote della fiducia personale per ricevere il dono immeritato.

Se fosse rimasto per primo a guadagnarselo, lo avrebbe escluso; avrebbe chiuso le braccia. Rinunciando giustamente a se stesso, perché vedendo e confidando nel suo misericordioso Dio, la vista della cui santa gloria annienta l'idea delle pretese dell'uomo. aprì le braccia e il Dio della pace riempì il Vuoto. L'uomo ha ricevuto l'approvazione del suo Dio, perché non ha interposto nulla di suo per intercettarlo.

Da un punto di vista, il punto di vista più importante qui, non importava quale fosse stata la condotta di Abramo. Di fatto, era già devoto quando avvenne l'incidente di Genesi 15:1 . Ma in realtà era anche un peccatore; ciò è reso abbastanza chiaro da Genesi 12:1 , il capitolo stesso della Chiamata.

E potenzialmente, secondo la Scrittura, era un grande peccatore; perché era un esempio del cuore umano. Ma questo, mentre costituiva l'urgente bisogno di accettazione di Abramo, non fu affatto un ostacolo alla sua accettazione, quando si allontanò da se stesso, nella grande crisi della fede assoluta, e accettò Dio nella sua promessa.

Il principio dell'accettazione dell'"Amico" era identicamente quello che soggiace all'accettazione del più flagrante trasgressore. Come ci ricorderà presto san Paolo, Davide nella colpa del suo adulterio omicida e Abramo nel cammino grave della sua obbedienza adorante, stanno qui allo stesso livello. In realtà o potenzialmente, ognuno è un grande peccatore. Ciascuno si volge da se stesso, indegno, a Dio nella sua promessa. E la promessa è sua, non perché la sua mano sia piena di merito, ma perché è vuota di sé.

È vero che la giustificazione di Abramo, a differenza di quella di Davide, non è esplicitamente connessa nella narrazione con una crisi morale della sua anima. Non è raffigurato, in Genesi 15:1 , come un penitente cosciente, che vola dalla giustizia al Giudice. Ma non c'è una profonda suggestione che qualcosa di simile a questo sia poi passato su di lui, e attraverso di lui? Quella breve affermazione, che "si fidava del Signore, e glielo attribuiva per giustizia", ​​è un'anomalia nella storia, se non ha una profondità spirituale nascosta in essa.

Perché, proprio in quel momento, dovremmo sentirci dire questo della sua accettazione con Dio? Non è forse perché la vastità della promessa aveva fatto vedere all'uomo per contrasto l'assoluta mancanza di un merito corrispondente in se stesso? Giobbe Giobbe 42:1 fu portato alla penitenza disperata non dai fuochi della Legge ma dalle glorie della Creazione.

Non fu forse Abramo portato alla stessa coscienza, qualunque forma avesse preso nel suo carattere e nel suo periodo, dalle maggiori glorie della Promessa? Sicuramente fu lì e allora che apprese quel segreto del rifiuto di sé in favore di Dio che è l'altro lato di ogni vera fede, e che venne fuori molti anni dopo, nelle sue potenti questioni di "lavoro", quando depose Isacco sull'altare.

È vero, ancora, che la fede di Abramo, la sua fiducia giustificante, non è collegata nella narrazione con alcuna aspettativa articolata di un sacrificio espiatorio. Ma qui prima osiamo dire, anche a rischio di quella formidabile accusa, un'antica e obsoleta teoria del credo patriarcale, che probabilmente Abramo sapeva molto di più sul Venuta di quanto una critica moderna comunemente consentirà. "Egli si rallegrò di vedere il mio giorno, e lo vide, e si rallegrò".

Giovanni 8:56 E poi, la fede che giustifica, sebbene ciò che tocca di fatto è la beata propiziazione, o meglio Dio nella propiziazione, non implica sempre una conoscenza articolata di tutta la "ragione della speranza". Implica sicuramente una vera sottomissione a tutto ciò che il credente conosce della rivelazione di quella ragione.

Ma può (dalle circostanze) conoscerlo molto poco, eppure essere un credente. Il santo che ha pregato Salmi 143:2 "Non entrare in giudizio con il tuo servo, o Signore, perché nessun uomo vivente sarà giustificato davanti a te", si è gettato su un Dio che, essendo assolutamente santo, tuttavia può in qualche modo, proprio come Egli è, giustificare il peccatore.

Forse sapeva molto della ragione dell'Espiazione, poiché essa risiede nella mente di Dio, e come è spiegata, come è dimostrata, nella Croce. Ma forse non lo fece. Ciò che fece fu di elevarsi alla piena luce che aveva, "senza una sola supplica", sul suo giudice, come un uomo terribilmente consapevole del suo bisogno, e confidando solo in una misericordia sovrana, che deve essere anche un giusto, un legge che onora la misericordia, perché è la misericordia del Signore giusto.

Non dobbiamo sbagliarci, nel frattempo, come se tali parole significassero che un credo definito dell'Opera espiatoria non è possibile, o non è prezioso. Questa lettera ci aiuterà a tale credo, e così anche Galati, Ebrei, Isaia, Levitico e tutta la Scrittura. "Profeti e re desideravano vedere le cose che noi vediamo e non le videro". Luca 10:24 Ma per questo non dobbiamo adorare la misericordia che ci ha svelato la Croce e l'Agnello benedetto.

Ma è tempo di venire alle parole dell'Apostolo così come stanno.

Che cosa diremo allora che Abramo ha trovato - "ha trovato", il perfetto del fatto permanente e sempre significativo - "ha trovato", nella sua grande scoperta della pace divina, il nostro antenato secondo la carne? "Secondo la carne"; vale a dire, (visto l'uso morale prevalente della parola "carne" in questa Lettera,) "rispetto di sé", "nella regione delle proprie opere e meriti". Perché se Abramo è stato giustificato per le opere, si vanta; ha diritto all'auto-applauso.

Sì, questo è il principio qui indicato; se l'uomo merita, l'uomo ha diritto all'auto-applauso. Non possiamo dire, per inciso, che il comune senso istintivo della discordia morale dell'autoapplauso, soprattutto nelle cose spirituali, è uno tra i tanti testimoni della verità della nostra giustificazione solo per fede? Ma San Paolo va avanti; ah, ma non verso Dio; non quando nemmeno un Abramo lo guarda in faccia e vede se stesso in quella Luce.

Come a dire: "Se si è meritato la giustificazione, avrebbe potuto vantarsi giustamente; ma il 'giusto vanto', quando l'uomo vede Dio, è cosa impensabile; perciò la sua giustificazione è stata data, non meritata". Perché cosa dice la Scrittura, il brano, il grande testo? Genesi 15:6 "Ora Abramo credette a Dio e gli fu accreditato come giustizia.

«Ora, all'uomo che lavora, la sua ricompensa, la sua ricompensa guadagnata, non è imputata a grazia, come dono di generosità, ma a debito; è all'uomo che non lavora, ma crede, confida in Lui che giustifica l'empio, che "la sua fede è stimata come giustizia". "L'empio", quasi a far emergere con un caso estremo la gloria del mirabile paradosso. "L'empio" è senza dubbio una parola intensa e oscura; significa non solo il peccatore, ma il peccatore aperto e provocatorio.

Ogni cuore umano è capace di tale peccato, perché "il cuore è ingannevole sopra ogni cosa". Sotto questo aspetto, come abbiamo visto, sotto il profilo potenziale, anche un Abramo è un grande peccatore. Ma ci sono davvero «peccatori e peccatori», nelle esperienze di vita; e san Paolo è pronto ora con un esempio cospicuo della giustificazione di colui che fu veramente, in un periodo miserabile, per sua propria colpa, "un empio".

"Hai dato occasione ai nemici del Signore di bestemmiare". 2 Samuele 12:14 Lo aveva fatto davvero. La fedele fotografia delle Scritture ci mostra Davide, l'eletto, il fedele, l'uomo delle esperienze spirituali, che recita il suo sguardo lussurioso in adulterio, e copre a metà il suo adulterio con il più vile degli omicidi costruttivi, e poi, per lunghi mesi, rifiutandosi di pentirsi. Eppure Davide era giustificato: "Ho peccato contro il Signore"; "Anche il Signore ha cancellato il tuo peccato.

Dal suo io tremendamente rovinato si rivolse a Dio, e subito ricevette la remissione. Poi, e fino all'ultimo, fu castigato. Ma poi e là fu giustificato senza riserve, e con una giustificazione che lo fece cantare una forte beatitudine.

Proprio come Davide esprime la sua felicitazione dell'uomo (ed era se stesso) al quale Dio attribuisce la giustizia indipendentemente dalle opere: "Beati coloro le cui iniquità sono state rimesse e i cui peccati sono stati coperti; felice l'uomo al quale il Signore non vorrà considera il peccato”. Salmi 32:1 Meravigliose parole, nel contesto dell'esperienza da cui scaturiscono! Un'anima umana che ha grandemente trasgredito, e che lo conosce bene, e sa anche che alla fine subirà a causa sua una dura disciplina, per esempio e l'umiliazione, tuttavia conosce il suo perdono, e lo conosce come una felicità indescrivibile.

L'iniquità è stata "eliminata"; il peccato è stato "coperto", è stato cancellato dal libro della "resa dei conti", scritto dal Giudice. Il penitente non si perdonerà mai: in questo stesso Salmo strappa dal suo peccato tutto il velo tessuto dal suo stesso cuore. Ma il suo Dio gli ha dato la remissione, lo ha considerato uno che non ha peccato, per quanto riguarda l'accesso a Lui e la pace con Lui. E così il suo canto di vergogna e di penitenza inizia con una beatitudine e finisce con un grido di gioia.

Ci fermiamo per notare l'esposizione implicita qui della frase "fare i conti con la giustizia". È trattare l'uomo come uno il cui conto è chiaro. "Beato l'uomo al quale il Signore non conterà il peccato". Nella stessa frase, "stimare la giustizia" (come nel suo equivalente latino, "imputare la giustizia"), la domanda, che cosa cancella il conto, non trova risposta. Supponiamo il caso impossibile di un record tenuto assolutamente chiaro dalla bontà senza peccato dell'uomo; allora il "riconosciuto", l'"imputato, la giustizia" significherebbe l'appagamento della Legge con lui per i suoi meriti.

Ma il contesto del peccato umano fissa l'effettivo riferimento a una "imputazione" che significa che la registrazione terribilmente difettosa è trattata, per una ragione divinamente valida, come se fosse, ciò che non è, buono. L'uomo è in pace con il suo giudice, anche se ha peccato, perché il giudice lo ha unito a se stesso, si è assunto la sua responsabilità e ne ha risposto alla sua stessa legge. L'uomo è trattato come giusto, essendo un peccatore, per amore del suo glorioso Redentore. È perdono, ma più che perdono. Non è un semplice licenziamento indulgente; è un'accoglienza da degni all'abbraccio del Santo.

Tale è la giustificazione di Dio. Avremo bisogno di ricordarlo per tutto il corso dell'Epistola. Fare della Giustificazione un mero sinonimo di Perdono è sempre inadeguato. La giustificazione è la contemplazione e il trattamento del peccatore pentito, trovato in Cristo, come giusto, come soddisfacente per la Legge, non semplicemente come uno che la Legge lascia andare. Questa è una finzione? Affatto. È legato in modo vitale a due grandi fatti spirituali.

Una è che l'Amico del peccatore si è trattato, nell'interesse del peccatore, della Legge, onorando la sua santa pretesa al massimo nelle condizioni umane che ha liberamente assunto. L'altro è che ha misteriosamente, ma realmente, unito il peccatore a Sé, nella fede, mediante lo Spirito; lo unì a sé come membro, come ramo, come sposa. Cristo ei suoi discepoli sono realmente Uno nell'ordine della vita spirituale. E così la comunità tra Lui e loro «è reale, la comunità del loro debito da una parte, dei suoi meriti dall'altra.

Ora sorge di nuovo la domanda, mai lontana nel pensiero di san Paolo, e nella sua vita, che cosa abbiano a che fare questi fatti della giustificazione con i peccatori gentili. Ecco David che benedice Dio per la sua accettazione immeritata, un'accettazione del tutto slegata dal rituale dell'altare. Qui soprattutto è Abramo, «giustificato in conseguenza della fede». Ma Davide era un figlio del patto della circoncisione.

E Abramo era il padre di quel patto. Le loro giustificazioni non parlano solo a coloro che stanno, con loro, all'interno di quel cerchio incantato? Abramo non fu giustificato dalla fede più la circoncisione? La fede non ha agito solo perché era già uno dei privilegiati? Quindi questa felicitazione, questo grido di "Felici i giustificati liberamente", è per la circoncisione o per l'incirconcisione? Poiché diciamo che ad Abramo, con enfasi su "Abramo", la sua fede era considerata giustizia.

La domanda, intende, è legittima, "perché"» Abramo non è a prima vista un esempio calzante per la giustificazione del mondo esterno, delle razze umane non privilegiate. Ma pensa: come è stato calcolato allora? Ad Abramo circonciso o incirconciso? Non nella circoncisione, ma nell'incirconcisione; dovettero passare almeno quattordici anni prima che entrasse il rito dell'alleanza. E ricevette il segno della circoncisione (con l'accento su "segno", come a dire che la "cosa", la realtà firmata, era già sua), come un sigillo sulla giustizia della fede che era nella sua incirconcisione, un sigillo sull'accettazione che ricevette, antecedente a ogni privilegio formale, in quella nuda mano di fede.

E tutto questo era così, ed è stato registrato così, con uno scopo di vasta portata: che potesse essere padre, esemplare, rappresentante, di tutti coloro che credono nonostante l'incirconcisione, che a loro dovrebbe essere attribuita la giustizia; e padre della circoncisione, esemplare e rappresentativo anche all'interno della sua cerchia, per coloro che non solo appartengono alla circoncisione, ma anche per coloro che seguono il sentiero della fede incirconcisa di nostro padre Abramo.

Quindi il privilegio non aveva nulla a che vedere con l'accettazione, se non controfirmare la concessione di una grazia assolutamente gratuita. Il Sigillo non ha fatto nulla per stipulare il Patto. Ha solo verificato il fatto e ha garantito la buona fede del Donatore. Come sono i sacramenti cristiani, così era il sacramento patriarcale; era "una testimonianza sicura ed un segno efficace della grazia e della buona volontà di Dio". Ma la grazia e il bene non vengono per mezzo del sacramento come per mezzo, ma direttamente da Dio all'uomo che ha preso Dio in parola.

"Il mezzo con cui riceveva", la bocca con cui si nutriva del cibo celeste, "era la fede". Il rito non si poneva tra l'uomo e il suo Signore accettante, ma era per così dire presente al fianco per assicurargli con un fatto simultaneo fisico che tutto era vero. "Niente in mezzo" era la legge della grande transazione; niente, nemmeno un'ordinanza data da Dio; nient'altro che le braccia vuote che ricevono il Signore stesso; -e le braccia vuote in effetti non mettono "niente in mezzo".

Quanto segue è estratto dal Commento a questa epistola in "The Cambridge Bible" (p. 261): "[Cosa dire a] la discrepanza verbale tra l'insegnamento esplicito di San Paolo che 'un uomo è giustificato dalla fede senza opere, " e l'insegnamento altrettanto esplicito di san Giacomo che "l'uomo è giustificato per le opere, e non solo per fede"? Con solo il Nuovo Testamento davanti a noi, è difficile non presumere che l'unico Apostolo abbia in vista una qualche distorsione del dottrina dell'altro.

Ma il fatto (vedi 'Galatians' di Lightfoot, nota staccata al cap. 3) che la fede di Abramo fosse un testo rabbinico di base altera il caso, rendendo perfettamente possibile che San Giacomo (scrivendo ai membri della dispersione ebraica) non avesse ma in vista dell'insegnamento rabbinico. E la linea di tale insegnamento è indicata da Giacomo 2:19 , dove si dà un esempio della fede in questione; e quell'esempio riguarda interamente il grande punto dell'ortodossia strettamente ebraica: DIO È UNO.

Le persone a cui si rivolgeva [erano quindi quelle la cui] idea di fede non era l'accettazione fiduciosa, una credenza del cuore, ma l'adesione ortodossa, una credenza della testa. E San Giacomo [prendeva] queste persone rigorosamente per le proprie ragioni, e presumeva, per la sua argomentazione, che il loro resoconto molto errato della fede fosse corretto."

«Egli dimostrerebbe così il punto, ugualmente caro a san Paolo, che la mera ortodossia teorica, a parte gli effetti sulla volontà, è priva di valore. Non contesterebbe minimamente la dottrina paolina che l'anima colpevole messo in una posizione di accettazione con il Padre solo per connessione vitale con il Figlio, e che questa connessione è effettuata, assolutamente e solo, non per merito personale, ma per fiduciosa accettazione della Propiziazione e del suo merito vicario onnipotente.

Da tale fiduciosa accettazione seguiranno inevitabilmente le "opere" (nel senso più profondo); non come antecedenti ma come conseguenti di giustificazione. E cosi' solo la fede giustifica; ma la fede che giustifica non può mai essere sola».

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